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Per molto tempo è stato assai comune incontrare utenti Linux pronti a spergiurare che la mancanza di applicazioni da ufficio fosse la principale causa della scarsissima diffusione del proprio sistema operativo in ambito desktop. Era un'idea così fortemente radicata che fiorivano di continuo teorie del complotto come quella che vedeva Microsoft ostinatamente decisa a non portare Office su Linux per paura di farne un potenziale concorrente. O quella che leggeva nelle interfacce WYSIWYG un grande piano dei poteri forti per mettere nell'angolo la potenza di Emacs e LaTex.
Già in quel periodo però c'era Applixware (a pagamento) ed a metà degli anni '90 arrivò StarOffice 3.1 per la prima volta anche in versioni per Linux. Ci provò anche un colosso come Corel che sull'onda dell'entusiasmo per Linux creò una propria distribuzione e propose Wordperfect in versioni Java, native per Linux ed integrate con l'emulatore Wine. Tutto sostanzialmente inutile.
Fin qui però il linuxiano radicale aveva gioco relativamente facile nel rigirare la frittata evidenziando come tutti i progetti citati portassero il marchio di Caino di un codice chiuso in contrasto con le mitologiche 4 libertà del verbo GNU.
Qualche anno ancora ed anche questo mito cadde miseramente. Sun Microsystem rese pubblico il codice di StarOffice, arrivarono quindi OpenOffice, i suoi molti fork e poi ancora LibreOffice. Ed in tempi più recenti OnlyOffice e persino la versione web di Microsoft Office.
Ma Linux sul desktop non è decollato. La sua è oggi una presenza significativa ma comunque piccola e molto frammentaria. Il linuxiano radicale di cui sopra ha già trovato nuovi e più aggiornati alibi per spiegare la situazione e continua a vivere nel suo mondo parallelo fatto di grandi complotti ed oscure macchinazioni. Se poi lo segui per un po' nella sua incessante presenza online scopri che come minimo ha un dual boot Windows/Linux, perché a suo dire l'utente medio può fare tutto con Linux ma lui no, per ragioni complicatissime ed imposte dall'alto deve utilizzare anche l'altro sistema operativo. Perché si sa, i puristi sono sempre più puri con i computer degli altri.
Sul perché Linux sul desktop resti inesorabilmente marginale si potrebbe discutere per anni senza peraltro arrivare ad una risposta condivisa. Inerzia degli utenti, frammentazione eccessiva, assenza di applicazioni trainanti, forza commerciale e politica dei concorrenti. E chissà quante altre cose che al momento non mi vengono in mente. Sull'assenza in Linux dei grandi applicativi professionali invece credo che sia assai più semplice dare delle risposte. Se Adobe, Autodesk e la stessa Microsoft non rilasciano applicazioni native per Linux la ragione è fondamentalmente una: non ne vale la pena. Seguitemi ancora per un po' e cercherò di spiegare meglio questa affermazione.
Supponiamo per assurdo che Adobe rompa gli indugi e decida di portare Pothoshop anche su Linux. Il primo elemento da tenere a mente è che Photoshop non è un giocattolo. È un software professionale quasi indispensabile a chi lavora nel mondo della fotografia e della grafica, non nasce per ritagliare le foto della Cresima o per raddrizzare il mare in discesa negli scatti delle vacanze. E si paga di conseguenza. Quindi se Adobe volesse portare Photoshop su Linux dovrebbe individuare una soluzione per farsi pagare le licenze o l'abbonamento esattamente come avviene su Windows o su Mac. Teniamolo a mente.
Il primo problema non banale da affrontare è che non esiste un modo semplice per rilasciare una versione Linux di un software. E non esiste perché la gestione del software in Linux è frammentata quasi quanto le distribuzioni stesse. Ogni distribuzione vuole avere i propri repository, i propri strumenti di installazione, la propria politica di gestione delle librerie, ed ovviamente il proprio formato dei pacchetti. Fino a non molti anni fa quest'ultimo punto si risolveva rilasciando due versioni, una come pacchetto RPM (Red Hat e soci) e l'altra come pacchetto DEB (Debian, Ubuntu, etc.) Questo approccio lasciava comunque escluse alcune distribuzioni ma permetteva di coprire gran parte dell'universo Linux. Oggi la situazione è persino peggiore, tra Snap, Flatpack, AppImage e quant'altro, una società che volesse distribuire applicativi Linux mantenendo il controllo dei rilasci dovrebbe barcamenarsi tra un gran numero di formati diversi, tutti simili ma reciprocamente incompatibili. La stessa società invece può facilmente produrre un singolo installer con cui coprire le ultime tre o quattro versioni di Windows o di Mac OS.
Ma supponiamo ancora che Adobe voglia comunque seguire questa strada. Il secondo problema che dovrà affrontare riguarda l'integrazione con l'ambiente desktop. Mantenendosi sul generico è possibile creare applicazioni relativamente indipendenti dal desktop environment ma con il rischio di produrre risultati mediocri, scarsamente integrati nel flusso di lavoro e poco inclini a collaborare con le applicazioni di sistema. L'altra via è quella di sviluppare più varianti dell'applicazione ciascuna delle quali ottimizzata per un certo desktop environment. E qui si ritorna al punto precedente: bisogna supportare gli ambienti basati su QT e quelli basati su GTK, ma spesso non basta perché occorre anche prevedere diverse varianti a seconda della versione supportata delle diverse librerie (Cinnamon e Mate ad esempio per molto tempo hanno utilizzato rami differenti di GTK). Se poi si volesse dare supporto anche agli ambienti minori... beh, avete capito.
Dato che siamo in un campo puramente ipotetico supponiamo che l'azienda voglia comunque procedere. Investe milioni in questo processo di porting ed alla fine è pronta a distribuire il fantastico Photoshop per Linux. Cosa mai potrebbe andare storto? Il terzo grande ostacolo che tiene lontane molte software house da Linux sono gli utenti di questo sistema operativo, o come spesso si autodefiniscono corporativisticamente, la community. Queste sono le reazioni che verosimilmente mi aspetterei di leggere:
Come forse sarà evidente la situazione è senza sbocco. Se Adobe decidesse di offrire gratuitamente Photoshop per Linux ovviamente non rientrerebbe mai del suo investimento; Se proponesse una formula freemium si ritroverebbe a breve con le stesse obiezioni; Se proponesse un abbonamento verrebbe comunque contestata con le stesse pseudo-motivazioni e con l'aggravante di creare un lock-in tecnologico a gettoni.
Se poi per assurdo decidesse di rilasciare i sorgenti del proprio software, tempo 18 ore e si ritroverebbe almeno dieci fork basati sullo stesso codice, tutti ovviamente gratuiti ed ospitati in oscuri repository di cui nessuno può garantire la serietà. E che tuttavia offrendo Photoshop gratis verrebbero comunque presi d'assalto. Perché il codice deve essere aperto non per poterlo verificare -cosa che pochissimi utenti sarebbero in grado di fare- ma solo per poterne compilare versioni gratuite e beffare chi si è fatto il mazzo a scriverlo e collaudarlo.
Tutto questo, badate bene, per portare un software su un sistema operativo che copre il 3% del mercato desktop, e per una frazione ancor più piccola di questa percentuale eventualmente interessata a software professionale a pagamento. Come dicevo, non ne vale la pena.
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