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In assenza di grandi ispirazioni e con un paio di bozze nel cassetto, per questo ottavo numero di Condensati di Rete vorrei proporvi un vecchio articolo scritto ormai più di due anni fa ed inizialmente pubblicato su Medium. Il tema è il rapporto tra le app per dispositivi mobile ed il browser, e più precisamente l’analisi delle ragioni che spingono a rilasciare un’app per funzioni che potrebbero tranquillamente essere svolte da un browser standard. Poi qualche altro numero sui download della versione 4.1.7 di OpenOffice e l’imminente arrivo del Manifest V3 delle API di Google Chrome che potrebbe avere effetti decisamente negativi sugli ad-blocker. Iniziamo quindi.
Quando si prova a spiegare cosa siano le ‘app’ è facile cadere nel tranello di considerarle l’equivalente per smartphone di quelli che sui computer chiamavamo programmi, software o addirittura routine.
La corrispondenza è però solo parziale perché il concetto di app è molto più sfuggente e pone non poche complicazioni. Una gran parte delle app disponibili negli store si limita in realtà a scambiare dati con un server remoto inviando informazioni e ricevendone altre da presentare sullo schermo. Per chi ha qualche primavera sulle spalle non è certo una novità, questo è quello che hanno fatto tutti i browser da Mosaic in poi. I pionieri di internet obietterebbero anzi che questo è esattamente quello che faceva anche Telnet all’interno di una BBS. Chi si fosse perso nell’ultima frase può leggere Internet 96 edito da Laterza, primo di una fortunata serie di manuali sulla rete che tratta anche di quella fase storica.
Molte app fanno quindi il lavoro tipico di un browser. Eppure provando ad accedere da un browser mobile a posta elettronica, social network, forum e persino comunissimi siti web è sempre più pressante l’invito a scaricare la relativa app. A volte si tratta di un messaggio a margine della pagina, altre volte di grossi banner con microscopici pulsanti di chiusura, altre volte ancora vere e proprie schermate interposte impossibili da ignorare.
Viene da chiedersi quindi se davvero il browser sia tecnicamente superato e vada rottamato in favore delle app. Da un punto di vista tecnico la risposta è semplice: un browser può fare sostanzialmente tutto ciò che fa un app. Per i miscredenti faccio un paio di esempi: una applicazione complessa come #LibreOffice Viewer per Android è realizzata utilizzando l’interfaccia grafica di Firefox per Android. Ancora, l’Opera Mobile Store (aggiornamento:oggi il servizio si chiama Bemobi) ospita decine di giochi ed applicazioni realizzate in #HTML 5 e quindi in grado di funzionare non solo su Opera ma anche su moltissimi altri browser standard (anche offline se si vuole).
Rimane quindi il dubbio, perché spingere tanto sull’adozione delle app? La risposta potrebbe essere molto semplice, ed ha a che fare neanche a dirlo con la libertà degli utenti. All’interno di un’app siamo ospiti soggetti alle regole che il proprietario a stabilito per noi. All’interno del browser siamo padroni del nostro destino informatico. Provo a chiarire meglio.
Un’app può accedere a molte informazioni sullo smartphone e sul suo proprietario e può inviarle al proprio creatore senza sostanziali ostacoli. Un browser serio è invece configurabile ed è l’utente a decidere se e cosa inviare ai siti web che andrà a visitare. Ogni browser serio permette direttamente o indirettamente di selezionare il contenuto: posso ad esempio decidere di non caricare le immagini perché ho poco traffico dati a disposizione; posso scegliere di non eseguire gli script; ho la possibilità di cancellare i cookie tecnici e di profilazione complicando la vita al pubblicitario di turno che vorrebbe tracciare la mia vita; posso decidere di occultare la mia posizione impedendo la geo-localizzazione; e posso persino installare un AdBlock per cestinare all’origine la pubblicità.
Nessuna di queste libertà è solitamente esercitabile nelle app che anzi si propongono con la classica formula prendere o lasciare. E così ti ritrovi l’app torcia che per accendere il LED della fotocamera ha bisogno di conoscere la tua identità, la tua rubrica e la tua posizione. Allo stesso modo un sito universalmente accessibile dal browser può adottare un’app per massimizzare il ritorno pubblicitario sicuro di poter accedere a dati di profilazione affidabili e certo di poter somministrare pubblicità senza alcun filtro.
Ecco allora che si arriva al paradosso finale. Nel mondo delle app dove quasi tutto sembra essere gratis si inverte la relazione logica tra domanda ed offerta. L’utente smette di essere il destinatario del servizio e si trasforma in realtà nel prodotto da offrire agli unici che si presentano con il portafogli pieno, vale a dire chi è disposto a pagare per trasmettere il proprio messaggio di marketing o ad acquistare succosi pacchetti di dati.
Se ne discute da tempo ma ora l’API Manifest V3 ha debuttato ufficialmente in Google #Chome Canary 80. Per chi non lo sapesse l’API Manifest definisce gli strumenti a disposizione degli sviluppatori per creare estensioni per Chrome. Questa terza revisione ha fatto molto discutere poiché pone una serie di limitazione agli ad-blocker, vale a dire a componenti come uBlock Origin e AdBlock Plus che filtrano le richieste provenienti dai circuiti pubblicitari. Gli ad-blocker hanno bisogno di filtrare diverse decine di migliaia di risorse per poter svolgere il loro compito e fino ad ora in Google Chrome si sono appoggiati ad una API denominata Web Request. Nel nuovo Manifest v3 l’uso di questa funzione viene molto limitato ed in sua sostituzione Google propone una nuova API denominata Declarative Net Request che funziona in maniera diversa e può gestire un numero limitato di regole (attualmente 150 mila).
Per gli sviluppatori questo significa non solo dover riscrivere parte del codice delle proprie estensioni, ma anche doversi scontrare con i limiti della nuova API che non permetterebbe agli ad-blocker di mantenere le funzionalità attuali. La situazione è complessa ed in divenire sia perché Google sta dialogando con gli sviluppatori per individuare possibili soluzioni, sia anche perché molti browser basati su Chromium (tra cui #Brave e #Vivaldi) non intendono abbracciare il nuovo modello. Difficile dire se questi browser alternativi disporranno delle risorse per gestire un proprio ramo di sviluppo o se alla lunga dovranno convergere sulle direttive di #Chromium. Nessun impatto per chi usa #Firefox, l’unico tra i browser maggiori a disporre di un proprio engine. (-> gHacks)
Vi avevo raccontato negli scorsi numeri di come stiano andando i download di OpenOffice 4.1.7. Dopo aver raggiunto 1,6 milioni di download in un mese, adesso questa versione ha superato la soglia dei 3 milioni (-> Portail OpenOffice). Come al solito questi dati riguardano solo i download dal mirror ufficiale e sono quindi una stima per difetto del totale.
Nello scorso numero parlato dell’intenzione di creare un indice per i diversi numeri di Condensati di Rete. Alla fine la soluzione scelta -almeno per il momento- è quella più artigianale di un file di testo ospitato su Box a questo indirizzo. Lo aggiornerò periodicamente, ma partite dal presupposto che le cose più recenti non saranno subito elencate.
Alla prossima!